COME IN POST OFFICE…
Negli anni ‘80 lavorai per alcuni mesi come impiegata per una sostituzione temporanea in una azienda vicino a Milano.
Ci arrivai attraverso la solita agenzia danese di lavoro interinale. Questa formula di lavoro all’epoca non esisteva in Italia, non era normata ed era ampiamente osteggiata. A me, allora universitaria, permise di fare moltissime esperienze lavorative.
Conoscevo il mondo aziendale attraverso le frequentazioni e i racconti di mio padre che era manager in Colgate Palmolive, una bella azienda.
La mia prima esperienza fu invece in un tipico carrozzone italiano. Per giunta finii in un ufficio dove tre fancazziste dettavano legge. Niente a che vedere con il divertente fumetto di Bristow. Più una esperienza impiegatizia alla Bukowski in Post Office.
Le tre megere
La mattina in cui mi presentai quelle che avrebbero dovuto essere le mie colleghe mi guardarono subito storto.
Io avevo poco più di 20 anni. Loro il doppio.
Loro timbravano il cartellino. Io no.
C’erano abbastanza elementi per classificarmi come minaccia.
Mi assegnarono una scrivania. Una macchina da scrivere. Venne chiesto ad una delle tre di mostrarmi dove era la cancelleria e i “fogli missione” e di spiegarmi in cosa consistesse il mio lavoro.
Si adoperò al minimo sotto lo sguardo attento delle altre due che controllavano che non mi dicesse più del necessario. Alla fine del breve inserimento mi mollò alla mia scrivania disadorna e se ne tornò alla sua.
Non mi degnarono più di una sola parola per tutto il giorno e, parlottando fra di loro, si trincerarono dietro a pile di cartelline e fogli colorati che stazionavano sopra ai loro tavoli.
Mission impossibile
Nel proseguo della giornata entrarono alcuni manager e ingegneri. Mi salutarono cordialmente e poi si rivolsero alle colleghe.
Dalla mia postazione cercavo di decifrare le conversazioni e raccogliere quante più informazioni possibili.
Dopo un paio d’ore mi fu tutto chiaro. Il lavoro era facile: bisognava mandare gli occhi al cielo, lamentarsi di essere oberate di lavoro, far pietire ai colleghi in modalità fantozziana l’acconto di cassa cui avevano diritto per non pagare di tasca propria le spese di trasferta.
Le tre avevano inoltre affibbiato nomignoli irriverenti a quasi tutti.
Revolucion!
Il quarto giorno un giovane ingegnere che avevano soprannominato “Ciciotti” mi avvicinò timidamente in corridoio. Aveva urgenza. Gli confermai che poteva rivolgersi a me per “sgravare” le colleghe.
Con coraggio da leone, l’Ing. “Ciciotti” entrò nella nostra stanza, le ignorò e si fiondò alla mia scrivania sottoponendomi la sua richiesta.
In ufficio calò il gelo. Un golpe!
Compilai così il mio primo “modulo missione”. Mi ci vollero non più di 5 minuti incluso l’inserimento della carta copiativa nella vecchia macchina da scrivere… Nome, Cognome, data di partenza e rientro, Destinazione, Totale acconto.. Poi smistai i fogli colorati, andai alla cassa a prelevare i contanti per lui. Timbro e firma. Gli consegnai il tutto. Finito.
Si sparse la voce. Cominciai ad avere la fila per le missioni.
Le tre iniziarono a rivolgersi a me con toni melliflui. Io stavo in campana e battevo velocemente a macchina cercando di volare basso.
Per quieto vivere dovetti anche accodarmi alla loro pausa caffè. Conversazioni stupide, ma molto utili per studiare il nemico da vicino.
Guten Morgen
Qualche giorno dopo feci involontariamente un altro passo falso. Risposi ad una telefonata. Dall’altra parte della linea c’era il Direttore della sede di Francoforte. Una voce in tedesco mi chiese se parlavo tedesco… Selbstverständlich!
Da quel momento le tre mi misero definitivamente nel mirino.
Guerra
Una mattina fintamente scherzose mi presero a braccetto e mi portarono alla toilette. Mi dissero: “per truccarci tutte assieme”. Era palesemente una imboscata. Non avevo paura. Erano tre scamorze. Afferrai il mio beauty case. Pensai: o ci trucchiamo veramente o glielo tiro sul muso.
Nella toilette mi minacciarono verbalmente. Mi intimarono di rallentare il mio ritmo produttivo portandolo al loro, cioè quasi zero.
Non potevo credere alle mie orecchie.
Le mandai sulla forca. Me ne tornai in stanza e continuai a fare ciò per cui ero pagata e nel migliore dei modi.
Le miei prigioni
Qualche tempo dopo venni convocata dal Direttore del Personale. Non lo avevo mai incontrato. Mi recai nel suo ufficio con vane aspettative visto l’ambiente con cui mi confrontavo quotidianamente. Con mia sorpresa mi trovai di fronte ad un un uomo dell’età di mio padre di grande cultura e autorevolezza e dai modi raffinati e gentili. Mi riportò i complimenti dei colleghi per il mio lavoro nonché della sede di Francoforte. Mi chiese infine se fossi interessata ad una assunzione indeterminata.
Mi venne un colpo… Io li dentro proprio non mi immaginavo!
Lo ringraziai per la stima e per la proposta, ma gli risposi che avevo altri progetti in serbo per il mio futuro.
“Posso farle cambiare idea?” “Difficilmente!”
Non demorse. Risalì a mio papà. Lo contattò e gli chiese di convincermi ad entrare in azienda.
La sera a cena mio padre mi riportò orgoglioso le lodi del Direttore del Personale e mi illustrò i vantaggi della carriera aziendale abbinati alle mie qualità e altre amenità.
Mentre una metà del mio cervello ascoltava le parole di mio padre, l’altra metà indulgeva in pensieri del tipo: “Quando parte il primo volo per Bangkok?”
Fuga dallo Spielberg
Erano le 17,00 di un gelido inverno meneghino quando decisi che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei messo piede lì dentro. Seduta nella mia A112, mentre scaldavo il motore, osservavo tutti gli impiegati che sciamavano dall’edificio e si perdevano nella nebbione padano. Vidi arrivare anche il Direttore del Personale. Spruzzai l’acqua sul parabrezza e con i tergicristalli creai uno strato di ghiaccio per nascondermi. Invece lui mi vide. Toc Toc sul finestrino. Tirai giù lentamente con la manovella. “Buonasera Quattrini, allora…?”
“No, mai!”
Si fece una risata.
La storia di questa azienda è costellata di scandali e fallimenti che hanno riempito le cronache per un decennio.